Finestra di notizie sulla salute mentale

 I dati sull’assistenza psichiatrica in Italia

Vedi anche sito https://www.istat.it/it/archivio/219807 

La fotografia più recente dell’assistenza psichiatrica in Italia è stata scattata dal Ministero della Salute nel 2015, dalla quale risultano 183 dipartimenti di salute mentale, con circa 800mila cittadini (777.035 senza i dati della Sardegna, Valle d’Aosta e P.A. di Bolzano) che hanno avuto almento un contatto nell’anno, 54,4% di sesso femminile e 66,1% con più di 45 anni. I servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura sono 329 con 4.056 posti letto. Le case di cura psichiatriche accreditate 28 con 1.274 pl. Nel 2015 nei reparti di psichiatria pubblici e privati ci sono stati 1.398.211 giorni di degenza con una media 12,6 gg.
Gli accessi al pronto soccorso con diagnosi psichiatrica sono stati 585.087, il 2% del numero totale di accessi al ps. Su 100.271 ricoveri nei reparti psichiatrici pubblici i TSO sono stati 8.777.
29.733 pazienti in strutture residenziali, con non più di 20 pl.
28.809 pazienti in strutture semiresidenzaili (23.525 in centri diurni).
Il personale dei DSM è rappresentato da 29.260 unità, al di sotto dello standard di almeno 1/1500 abitanti indicato dal progetto obbiettivo tutela della salute mentale 1998 – 2000, e secondo il quale gli operatori dipendenti dovrebbero essere circa 40mila.
Medici 4.931, psicologi 2.213, infermieri 13.410, tecnici della riabilitazione psichiatrica 284, educatori professionali 1.622, OTA/OSS 3.090, assistenti sociali 1.283, sociologi 87, personale amministrativo 814, altro 1.526.
Vi è però da sottolineare una elevata differenza regionale rispetto alla media nazionale. Si passa dal + 49,8 dell’Emilia Romagna e + 44,8 della Liguria, al –64,3 del Molise e al – 41,8 dell’Umbria.
La prevalenza degli utenti trattati vede tra i principali gruppi diagnostici la depressione con il 37,36 (tassi per 10mila abitanti), la schizofrenia e le altre psicosi funzionali con il 30,83, le sindromi nevrotiche e somatoformi 21,83, manie e disturbi affettivi bipolari con l’11,89, i disturbi della personalità e del comportamento con il 10,61.
Le prestazioni erogate nei servizi territoriali sono state 10.199.531 e sono state rivolte per il 37,4% a pazienti con diagnosi di schizofrenia o altre psicosi funzionale, il 15, 5% per pz con diagnosi di depressione, il 9,4% per pz con diagnosi di mania e disturbi affettivi bipolari, il 9,3% per pz con disturbi della personalità e del comportamento.
Sempre dai dati del Ministero della Salute risulta che il costo dell’assistenza psichiatrica nel 2015 è stato di 3.739.512.000, che rapportato al fondo sanitario nazionale di 109.715.000.000 rappresenta il 3,4%. Il Documento della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Provincie Autonome del 18 gennaio 2001 indicava un impegno a destinare almeno il 5% dei fondi sanitari regionali per le attività di promozione e tutela della salute mentale.

Il superamento degli OPG e le REMS
A completamento del percorso rivoluzionario della 180, le leggi 9 del 2012 e 81 del 2014 hanno decretato anche il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, dopo la denuncia delle loro drammatiche condizioni. Nel maggio 2017 sono stati trasferiti gli ultimi 2 internati da un OPG, e si è completata la chiusura di tutti e sei gli ospedali psichiatrici giudiziari.
In alternativa agli OPG si dovrebbero attivare i dipartimenti di salute mentale e al loro interno sono state istituite le REMS (REsidenze per le Misure di Sicurezza), strutture sanitarie residenziali con non più di 20 poti letto, con personale solo sanitario, e possibilità di vigilanza esterna da concordare con le Prefetture. Inizialmente previste esclusivamente per i soggetti con una misura di sicurezza definitiva, oggi le REMS ospitano anche soggetti con misura di sicurezza provvisoria.
Ogni paziente in REMS deve avere un Piano Terapeutico Individuale, fermo restando che le decisioni finali in materia di misure di sicurezza sono di competenza della magistratura.
I dati dell’ultimo rapporto di Antigone risalenti all’Aprile 2017, vedono 30 REMS con 596 ricoverati (215 con misure di sicurezza provvisoria, 350 con misure definitive e 31 miste) e 289 persone in lista di attesa (205 provvisori e 84 definitivi). Nel 1978 vi erano 1149 internati negli OPG, 1547 al 30 giugno 2010 . E’ quindi aperta la problematica legata alla lista di attesa delle persone con misure di sicurezza detentive da eseguire nelle REMS, che oggi possono rimanere in libertà o detenute.

Appunti critici sul modello di azione degli psicofarmaci: il contributo di J. Moncrieff

Una rilettura del contributo della Moncrieff che descrive due modelli esplicativi dell’azione dei farmaci psicotropi: quello centrato sulla malattia e quello centrato sul farmaco.

Antonio Maone Psichiatra, Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma/A

In uno scritto [1] di qualche anno fa la Moncrieff [2] descrive due modelli esplicativi dell’azione dei farmaci psicotropi: “Il modello centrato sulla malattia è mutuato dalla medicina e descrive i farmaci attraverso il prisma della malattia, del disturbo o della costellazione di sintomi che si intende trattare. In accordo a questa visione, si ritiene che gli psicofarmaci producano i loro effetti su un sistema nervoso malato o anormale. Gli effetti ritenuti importanti di questi farmaci sono quelli che agiscono sul processo morboso. Tutti gli altri effetti sono di secondario interesse e vengono definiti “effetti collaterali”. Un esempio dalla medicina, spesso citato dagli psichiatri nel tentativo di rinforzare il modello di azione centrato sulla malattia, è l’utilizzo dell’insulina nel diabete. Rimpiazzando la carenza dell’ormone insulina, il trattamento insulinico porta l’organismo verso un funzionamento più normale. Tuttavia, anche trattamenti sintomatici come gli analgesici agiscono secondo un modello centrato sulla malattia, poiché agiscono contrastando alcuni processi fisiologici che producono il dolore. Al contrario, il “modello di azione centrato sul farmaco” propone una visione che, ben lontana dalla correzione di uno stato anormale, considera gli psicofarmaci stessi come induttori di uno stato anomalo o alterato. I farmaci psicotropi sono sostanze psicoattive, come l’alcol o l’eroina. Le sostanze psicoattive modificano le funzioni cerebrali e facendo ciò producono alterazioni del pensiero, delle emozioni e del comportamento. Le sostanze psicoattive esercitano la loro azione in chi li assume, indipendentemente dal fatto di essere o meno affetti da un disturbo mentale. E comunque differenti sostanze psicoattive producono effetti differenti. Il modello centrato sul farmaco supporta l’idea che gli effetti psicoattivi prodotti da alcuni farmaci può essere terapeuticamente utile in alcune situazioni. Essi non fanno ciò nel modo in cui il modello centrato sulla malattia suggerisce, cioè normalizzando le funzioni cerebrali. Lo fanno creando un anormale o alterato stato cerebrale che reprime le manifestazioni della malattia o vi subentra. Un esempio diffuso del modello centrato sul farmaco sono gli effetti dell’alcol sulle persone che soffrono di fobia sociale o timidezza patologica. L’alcol aiuta a ridurre l’ansia sociale non perché corregga un sottostante squilibrio chimico, bensì perché le caratteristiche dell’intossicazione da alcol includono rilassamento e disinibizione. È il sovrapposto stato di intossicazione in sé che aiuta, non gli effetti della sostanza sul meccanismo della malattia.

Un altro esempio interessante è l’utilizzo di analgesici oppioidi, come la morfina. Gli oppiacei esercitano un effetto diretto “centrato sulla malattia”, rallentando la conduzione dei segnali nelle cellule nervose, ma hanno anche ben noti effetti psicoattivi. Essi inducono un caratteristico stato alterato in cui la persona diviene emotivamente distaccata o indifferente – condizione a volte riferita come “anestesia emotiva”. Persone che hanno assunto oppiacei per il dolore spesso dicono di aver sentito comunque dolore, ma che di questo dolore non gli importava più nulla. Questo è un effetto “centrato sul farmaco”, in quanto dimostra che la copertura dell’esperienza del dolore avviene grazie all’alterazione dell’esperienza emotiva indotta dalla sostanza.

Quando i moderni psicofarmaci furono introdotti negli anni Cinquanta, essi venivano compresi in accordo al modello centrato sul farmaco. Gli antipsicotici, per esempio, che all’epoca erano noti come “tranquillanti maggiori”, erano considerati come un tipo particolare di sedativi. Si riteneva che essi avessero peculiarità uniche in situazioni come un episodio psicotico acuto, poiché potevano frenare il pensiero e attenuare l’emotività, quindi non solo semplicemente inducendo il sonno; tuttavia non erano considerati un trattamento indirizzato alla malattia. A partire dagli anni Settanta, però, questo modo di vedere si eclissò, il modello centrato sulla malattia divenne dominante, e i farmaci psicotropi vennero considerati come trattamenti specifici che funzionavano avendo come bersaglio un sottostante processo anomalo o morboso. Questo cambiamento si è rivelato ancora più chiaramente nel modo in cui i farmaci sono stati poi definiti e classificati. Prima degli anni Cinquanta i farmaci erano classificati in base alla natura degli effetti psicoattivi che producevano. I farmaci esistenti erano approssimativamente classificati come sedativi o stimolanti del sistema nervoso. In seguito, i farmaci iniziarono a essere definiti e classificati sulla base della malattia o del disturbo che si pensava trattassero: antipsicotici, antidepressivi, ansiolitici ecc.  Il predominio del modello esplicativo dell’azione del farmaco centrato sulla malattia non è avvenuto in virtù di schiaccianti evidenze di una sua superiorità o veridicità. Non c’è stata allora, e non c’è oggi, la convincente evidenza che ogni classe di farmaci psicotropi ha una sua azione specifica per la malattia e centrata sulla malattia. Non c’è stato peraltro alcun reale dibattito circa teorie alternative sull’azione del farmaco. Il modello centrato sulla malattia è semplicemente subentrato e la visione centrata sul farmaco è venuta meno. Si è dimenticato che c’era sempre stato un altro modo di comprendere come i farmaci psicotropi potessero funzionare”.

Il lavoro condotto dalla Moncrieff è teso dunque a “riabilitare” il modello esplicativo centrato sul farmaco, nella convinzione che sia il modo giusto di comprendere quali siano gli effetti degli psicofarmaci quando vengono assunti da persone con disturbi mentali. Sono interessanti le conseguenze di ciò, in quanto questo modello esige una più scrupolosa comprensione dell’insieme degli effetti che gli psicofarmaci producono e pone in primo piano il punto di vista che tutti i farmaci sono sostanze chimiche estranee all’organismo che necessariamente modificano il modo in cui esso normalmente funziona.

Esso inoltre focalizza la nostra attenzione sull’impatto che i farmaci psicotropi hanno sul corpo e sul cervello e su tutte le possibili conseguenze che le alterazioni indotte dai farmaci possono avere su come le persone pensano, sentono e si comportano. In conclusione, questo è “un necessario punto di partenza per un uso sensato, prudente e sicuro dei farmaci nei servizi di salute mentale”.

Note e bibliografia

  1. Joanna Moncrieff (Department of Psychiatry and Behavioural Sciences, University College di Londra) si è occupata in particolare degli effetti dei farmaci psicotropi. Ha condotto meta-analisi per la Cochrane Collaboration ed è co-fondatrice e chair di Critical Psychiatry Network. E’ autrice di numerose pubblicazioni, fra le quali i volumi The Bitterest Pills: The Troubling Story of Antipsychotic Drugs (2013) e The Myth of the Chemical Cure: A Critique of Psychiatric Drug Treatment (2009). Nel corso della sua attività ha formulato un modello esplicativo dell’azione dei farmaci psicotropi, definito drug-centred (centrato sul farmaco), alternativo a quello attualmente dominante disease-centred (centrato sulla malattia).
  2. Models of drug action Joannamoncrieff, 21.11.2013

Salute mentale, meno fondi al pubblico e rette più alte ai privati

di GIUSEPPE DEL BELLO

24 marzo 2018 Più soldi alle strutture private accreditate, meno fondi per la Salute mentale del servizio pubblico. Lo ha deciso la Regione con il decreto pubblicato sul Burc del 21 febbraio scorso, proprio mentre i dipartimenti che si occupano dei disagiati psichici e dell’assistenza territoriale della Asl Napoli 1 centro è allo stremo.
Mancano specialisti e infermieri, non ci sono autisti mentre quasi tutte le sedi avrebbero bisogno di lavori di ristrutturazione. E in condizioni così drammatiche arriva la decisione di aumentare le rette erogate da Palazzo Santa Lucia alle cliniche private convenzionate adibite alla riabilitazione e all’accoglienza dei pazienti psichiatrici.
Gli aumenti previsti riguardano le quattro fasce di interventi, i cosiddetti “setting assistenziali”. Rappresentano i diversi livelli qualitativi e quantitativi delle prestazioni terapeutiche erogate. Si parte dal grado massimo che passa dai 160 euro erogati finora a 190 (al giorno, per paziente), mentre al secondo livello troviamo una tariffa che sale da 142,20 a 176,67 euro. A seguire, il costo previsto per i lungodegenti che aumenta da 128,86 a 161. Ma quel che ha lasciato di stucco gli operatori del settore è l’incremento approvato per il quarto livello assistenziale (quello che si identifica in centro diurno senza pernottamento) dove la retta regionale concessa raggiunge i 112 euro, sempre al giorno e per paziente, a fronte dei 63,74 erogati finora. Cifre praticamente raddoppiate. Dall’altra parte c’è un servizio esclusivamente pubblico che oggi, a leggere il nuovo atto aziendale della Asl Napoli 1 appena approvato dalla giunta regionale, dovrebbe subire un accorpamento delle unità operative di Salute mentale che da dieci diventerebbero cinque. Con la conseguenza di un numero di pazienti sovradimensionato rispetto agli stessi parametri regionali precedentemente determinati. Osserva Franco Maranta, portavoce nazionale del Forum diritti e salute: «Su questa vicenda della partecipazione delle ex case di cura all’assistenza per i pazienti psichiatrici, questo ultimo atto sottoscritto da Vincenzo De Luca è senza precedenti. Siamo di fronte alla violazione evidente dei diritti del sofferente psichico ».
A descrivere lo sfascio, dati alla mano e prospettando le nefaste ricadute, è il direttore del dipartimento Fedele Maurano. Attraverso una nota spedita al manager Mario Forlenza, ricorda prima di tutto che la legge regionale 10 del 2001 stabiliva di «destinare il 5 per cento del fondo sanitario regionale alla salute mentale» e che invece, in ambito aziendale napoletano «non si raggiunge nemmeno il 3 per cento » . Ma sono le righe successive a evidenziare la situazione in cui sta precipitando la psichiatria napoletana: «Si continua a procedere con tagli lineari che di fatto determinano l’impossibilità a garantire i Lea (livelli minimi di assistenza) se si rispettano gli obiettivi di budget attribuiti per il corrente anno». E infine avverte: «Il fondo per il 2018 è insufficiente per rispondere alle esigenze del servizio». La nota si conclude con un appello attraverso cui Maurano chiede « l’immediata implementazione del personale e, in alternativa, un incremento significativo del budget».
Sul caso della psichiatria alle corde interviene anche la consigliera regionale Valeria Ciarambino: « Gli operatori che assistono i pazienti psichiatrici nelle strutture pubbliche lamentano scarsezza di risorse e di personale. E denunciano pure di non riuscire a garantire neanche  i livelli essenziali di assistenza. Il budget è molto inferiore a quello minimo previsto dalla legge. Eppure contemporaneamente c’è spazio per un inatteso incremento delle tariffe per le stesse prestazioni erogate dalle case di cura private accreditate. Anche nel delicatissimo ambito della salute mentale la sanità pubblica viene messa in ginocchio e quella privata incentivata. Il patto delle fritture di pesce è ancora vivo e vegeto». E nel Lazio non è molto diverso…

Dalla chiusura dei manicomi alla fine degli Ospedali psichiatrici giudiziari. È il momento di una seconda Conferenza Nazionale per la Salute Mentale.

I primi 40 anni della 180. 

La legge 180 del 13 maggio 1978 ha dato dignità e diritti a chi soffre di gravi disturbi psichiatrici. C’è bisogno di diffondere una maggiore cognizione sulla curabilità dei gravi disturbi psichiatrici, dai quali si può guarire. E’ venuto il momento di riunire tutti gli attori, istituzionali e non, per un confronto vero dal quale uscire con un rinnovato impegno ad attuare i principi della legge 180, a partire dal diritto alla tutela della salute mentale e dai diritti di cittadinanza

08 APR – Il 13 maggio 2018 la legge 180 compirà il suo quarantesimo anno di vita. Ogni legislatura, compresa quella attuale, vengono presentate diverse proposte di legge per cambiarla, ma nessuna è poi stata approvata, a conferma della riconosciuta validità dei suoi principi. Alla base, un concetto all’epoca rivoluzionario, racchiuso in una domanda e in una risposta nello storico documentario della Rai “I giardini di Abele” del 1968. Il giornalista Sergio Zavolichiede: “E’ interessato più al malato o alla malattia?”; lo psichiatra Franco Basaglia risponde: “Decisamente al malato”.
La legge 180, infatti, ha dato dignità e diritti a chi soffre di gravi disturbi psichiatrici. Da oggetto pericoloso, incurabile, da allontanare dalla società, a soggetto attore della propria vita con i diritti di cittadinanza, compreso il diritto alla cura, con la quale si può anche guarire.
Il risultato della legge 180, che possiamo definire il più eclatante, è comunque rappresentato dall’abolizione del manicomio, istituzionale totale che annullava la persona, con l’individuazione del territorio quale luogo di intervento per la tutela della salute mentale partendo dalla storia di ciascuno. Nei manicomi si ritrovavano rinchiusi insieme non solo i malati mente, ma anche coloro che erano ai margini della società, dai barboni ai piccoli delinquenti, dalle prostitute agli insufficienti mentali, dagli omosessuali agli alcolisti. Vi si praticavano elettroshock e contenzioni, e perfino la lobotomia frontale che rendeva “tranquilli” i degenti più agitati (l’ideatore Egas Moniz ricevette il premio Nobel nel 1949).Luoghi segreganti che arrivavano ad ospitare migliaia di internati, numeri non persone. Basti pensare in Italia al manicomio di Volterra che arrivò fino a 5mila degenti, e al Santa Maria della Pietà di Roma circa 3mila. Sempre Basaglia nel libro Conferenze Brasiliane: “La cosa importante che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto.” L’abolizione dei manicomi è stata ulteriormente completata dalla recente chiusura anche degli ospedali psichiatrici giudiziari. L’Italia, oggi, è l’unico paese al mondo senza più manicomi.Fondamentale è stata l’affermazione della volontarietà del trattamento, dopo decenni di internamenti obbligatori negli ospedali psichiatrici. Con la legge 180 i ricoveri obbligatori sono passati dalla norma ad una minoranza; durano di media pochi giorni e non più tutta la vita e, quando necessità il ricovero ospedaliero, sono effettuati nei servizi psichiatrici all’interno degli ospedali generali, prevedendo una serie di garanzie.

Il progetto obbiettivo 1998 – 2000 ha successivamente definito l’articolazione e le modalità di funzionamento dei dipartimenti di salute mentale, compito che la Costituzione assegna alle Regioni. Centri di salute mentale, centri diurni, strutture residenziali psichiatriche con non più di 20 posti letto, servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), residenze per le misure di sicurezza (Rems), articolazioni per la salute mentale nelle carceri, appartamenti assistiti, progetti di sostegno alla persona e assistenza domiciliare, progetti di integrazione sociali, in stretto rapporto con la cooperazione sociale, il volontariato e le associazioni dei familiari, rappresentano una vera e propria ricchezza e varietà di presidi, di servizi e di attività, a tutela della salute mentale, presenti più o meno in tutte le nostre Regioni.
Ma oltre il valore riconosciuto di questi principi, dopo 40 anni, ci sono ancora diverse criticità da affrontare, problematiche aperte, e domande alle quali non è semplice dare una risposta.
La pericolosità e lo stigma
Con la legge 180 è stata abolita la normativa manicomiale del 1904, risalente ad una concezione della psichiatria lombrosiana, per la quale il malato di mente lo era per caratteristiche fisiche, biologiche e genetiche, con intrinseca pericolosità. Si veniva, infatti, ricoverati perché giudicati pericolosi per sè e per gli altri, oppure perchè si dava pubblico scandalo. Con l’internamento nel manicomio, si perdevano i diritti civili e si veniva iscritti nel casellario giudiziale, quindi automaticamente la fedina penale diventava “sporca”. Ma, a 40 anni dalla legge 180, che ha eliminato dalla normativa sanitaria la parola pericolosità, la convinzione nell’opinione pubblica che chi soffre di gravi disturbi psichiatrici sia comunque sempre pericoloso, ancora sussiste.
Nel mantenimento di questa errata convinzione, un ruolo negativo l’hanno giocato e lo continuano a giocare i mass media, con una particolare enfasi nel raccontare i delitti commessi dai cosiddetti “folli” o attribuendo comunque subito alla follia la causa degli omicidi più efferati.A tutt’oggi rimane invece nel codice penale, risalente all’epoca fascista, il concetto di pericolosità sociale anche per la cosidetta “infermità psichica”. Una contraddizione irrisolta con i principi della legge 180.
Le risorse in salute mentale
I Presidenti delle Regioni nel 2001 approvarono un documento nel quale assumevano l’impegno a destinare almeno il 5% dei fondi sanitari regionali per le attività di promozione e tutela della salute mentale. Dai dati dell’ultima rilevazione del Ministero della Salute risulta invece una media nazionale del 3,4%, seppure con rilevanti differenze regionali.
Questo dato si accompagna alla carenza di personale rispetto allo standard individuato nel Progetto Obbiettivo 1998 – 2000 di almeno un operatore ogni 1500 abitanti. L’ultima rilevazione del Ministero della Salute ha registrato circa 30mila operatori invece dei 40mila previsti. E se pensiamo che il fattore umano rappresenta la principale risorsa in salute mentale, dove il rapporto operatore – paziente è fondamentale, appaiono condivisibili le preoccupazioni manifestate in primo luogo dai familiari.
Socialità e affettività
A volte l’estrema medicalizzazione dei disturbi psichiatrici, insieme alle risorse limitate, portano a risposte terapeutiche che si esauriscono, anche nei casi più complessi che avrebbero bisogno di una vera a propria presa in carico, solo nel binomio psicofarmaci/ricoveri, e più raramente psicoterapia.
Dobbiamo invece tenere presente che i bisogni di chi soffre di gravi disturbi psichiatrici sono gli stessi delle cosidette persone “normali”.
E’ quindi fondamentale l’aspetto sociale – relazionale. Promuovere occasioni di incontro con gli altri, di normale vita sociale, dallo sport al cinema, dalla musica al teatro, sapere usare in modo appropriato il web e i social, insieme alla formazione e pre-formazione al lavoro, rientrano a pieno titolo nel percorso terapeutico-riabilitativo.
Quaranta anni fa queste attività si svolgevano solo all’interno delle cittadelle manicomiali tra internati. Oggi abbiamo la possibilità di farle fuori. E questo, se le condizioni cliniche lo consentono, si può attuare più in appartamenti assistiti all’interno del tessuto cittadino e inseriti in una rete territoriale, piuttosto che in strutture residenziali isolate.
Il lavoro e la cooperazione sociale
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto “ (art. 4 Costituzione Italiana).
Ma una delle maggiori problematiche aperte in salute mentale è rappresentata dalle difficoltà che gli utenti, le famiglie e i servizi hanno nel portare avanti percorsi di inserimento lavorativo. Ai sensi della legge 68/1999 le aziende hanno l’obbligo di assumere persone rientranti nelle categorie protette in relazione al numero dei propri dipendenti, e le cooperative sociali rappresentano una reale possibilità di lavoro di chi soffre anche di gravi disturbi psichiatrici. Si tratta, però, di due possibilità ancora troppo poco utilizzate. C’è quindi bisogno di una maggiore attenzione su questa tematica, anche se estremamente difficoltosa, per la quale un importante ruolo di promozione lo possono giocare i centri di salute mentale, e soprattutto i centri diurni.
Controllo sociale e posizione di garanzia
“Anche al di fuori del ricovero coatto lo psichiatra è titolare di una posizione di garanzia, sullo stesso gravando doveri di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte autolesive e, naturalmente, eterolesive” (Cass.Pen. Sez. IV, 27.11.2008 n. 48292).
Ma quali possono essere la cautele possibili da mettere in atto ? Cosa è prevedibile e cosa è prevenibile ? Ogni persona ha la sua storia, e suoi determinanti comportamentali, che può essere difficile conoscere e sopratutto modificare.
Così, sopratutto nell’ultimo decennio, la cosiddetta posizione di garanzia in capo allo psichiatra, ma ormai anche agli altri operatori, rischia di diventare non più il dovere di assicurare le migliori cure possibili in modo appropriato, ma di esercitare veri e propri compiti di custodia. Oggi gli operatori della salute mentale si trovano sempre più stretti tra il dovere di cura e il dovere di controllo. Con la consapevolezza che i comportamenti autolesivi o eterolesivi hanno molteplici cause, spesso non dipendenti dalla patologia psichiatrica, e non esiste una cura certa che li possa prevenire.
Rischia di tornare l’affidamento agli stessi servizi dipartimentali di salute mentale di un ruolo sociale di sorveglianza, prima assegnato dalla società all’istituzione manicomiale.
Conclusioni
Una delle critiche maggiori alle legge 180 è quella di aver chiuso i manicomi abbandonando i malati mente e le loro famiglie. Si tratta di una affermazione che nasce dalle criticità esistenti, alle quali si deve avere la lucidità e la consapevolezza di rispondere affrontandole, senza pericolose scorciatoie verso un ritorno alla logica manicomiale. L’ultima rilevazione del Ministero della Salute ha registrato circa 800mila cittadini che hanno avuto almeno una prestazione nei DSM. Un grande risultato rispetto a 40 anni fa, con circa 100mila internati nei manicomi. Ma quanti sono i cittadini che avrebbero bisogno di essere presi in carico e non lo sono? Quanti sono i persi di vista?
C’è bisogno di diffondere una maggiore cognizione sulla curabilità dei gravi disturbi psichiatrici, dai quali si può guarire, avendo ben presente che, secondo le attuali conoscenze scientifiche, sono da considerarsi multifattoriali con componenti psicologiche, biologiche e sociali. Prevenire, curare e riabilitare, si dovrebbero coniugare con abitare, socializzare, lavorare, con la tessitura di una vera e propria rete promossa dai DSM. E’ venuto il momento, cogliendo l’occasione del quarantennale delle legge 180, di riunire tutti gli attori, istituzionali e non, per un confronto vero dal quale uscire con un rinnovato impegno ad attuare i principi della legge 180, a partire dal diritto alla tutela della salute mentale e dai diritti di cittadinanza, così come indicato dall’articolo 32 della Costituzione.
Per questo il nuovo Governo e le Regioni dovrebbero promuovere la seconda Conferenza Nazionale per la Salute Mentale, a distanza di circa 17 anni dalla prima, dalla quale far scaturire precisi impegni, con le necessarie risorse. Un obbiettivo per il quale dovrebbero unirsi tutti coloro che hanno a cuore la tutela della salute mentale nel nostro paese.
Massimo Cozza
Psichiatra, Coordinatore del Dsm ASL Roma 2 

Commenti chiusi